Il 7 giugno 2021 è stato approvato negli Stati Uniti il primo farmaco della storia nel trattamento dell’Alzheimer.
Aducanumab, (nome dell’anticorpo monoclonale), potrà essere somministrato solo nelle fasi precoci della malattia per rallentare il declino cognitivo. Un passo storico che però non rappresenta affatto la soluzione all’Alzheimer: approvato contro il volere del comitato indipendente dell’FDA, i trial clinici su cui si è basata l’immissione in commercio non hanno portato a risultati chiari sul reale beneficio di aducanumab.
Secondo le ultime stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2050 le persone colpite da Alzheimer saranno più di 107 milioni. Un numero impressionante che inciderà in maniera notevole sui conti dei sistemi sanitari nazionali. Il morbo, la devastante malattia neurodegenerativa osservata per la prima volta nel 1906 dal medico tedesco Alois Alzheimer, si caratterizza per il progressivo decadimento delle funzioni cognitive.
Caratteristica comune a tutti i malati è la presenza di ammassi neurofibrillari e placche amiloidi a livello del cervello. L’evidenza scientifica della presenza di queste placche ha portato in passato i ricercatori di tutto il mondo a sviluppare strategie per eliminare queste proteine aberranti. Ed è proprio partendo da questa evidenza che negli anni si sono sviluppate diverse strategie mirate ad evitare l’accumulo di queste proteine.
Una di esse è l’utilizzo di aducanumab, un anticorpo che avrebbe il ruolo di “sequestrare” e “distruggere” le beta amiloidi riducendo, di fatto, i danni cerebrali associati. Testato da anni nei pazienti con Alzheimer, il farmaco ha subito nel tempo un travagliato iter di sperimentazione che ha portato alla controversa approvazione. I dubbi sono tutti nelle due sperimentazioni di fase III (quella fase in cui si valuta la reale efficacia del prodotto): in una il farmaco si è mostrato utile nel rallentare il declino cognitivo – se somministrato precocemente – di 0,3 punti in una scala che va sino a 18; nell’altra non si è registrato alcun miglioramento. Studio che è stato interrotto a metà, per mancanza di prove di efficacia, che ha lasciato più di mille persone (delle 3285 coinvolte nello studio) senza completare la terapia. Non solo, somministrato ad alte dosi aducanumab nel 40% dei partecipanti allo studio ha causato edema cerebrale ed emorragie.
La somministrazione di aducanumab avviene attraverso un’infusione intravenosa della durata di circa un’ora, una volta ogni 4 settimane, in uno studio medico o in un centro specializzato.
Come detto poco fa, il farmaco è stato sviluppato per pazienti con lieve declino cognitivo, ma arrivare ad una diagnosi univoca e precoce non è affatto semplice e scontato. É dunque auspicabile che questa importante scoperta porti nuova linfa alla ricerca di cure per la malattia di Alzheimer anche per le persone nelle fasi più avanzate.
Una speranza sì, ma una cura vera e propria ancora no
In attesa che il prodotto venga registrato anche in Europa, il via libera ottenuto in America rappresenta un’importante novità a livello mondiale nel contrasto alla malattia. Al vaglio degli esperti ci sono gli esiti a lungo termine della cura, dal rallentamento al blocco della patologia. La stessa Fda ha ammesso che gli studi presentati non hanno fornito prove di efficacia complete e per questo ha approvato il farmaco a condizione che l’azienda che l’ha messo a punto – la Biogen – conduca un nuovo studio clinico. Negli anni che serviranno perché lo studio sia completato il farmaco sarà comunque a disposizione dei pazienti, ha specificato l’agenzia. E se lo studio post mercato, quello di cosiddetta Fase 4, dovesse fallire nel dimostrare l’efficacia del farmaco, la Fda revocherà l’approvazione.